Pensieri e parole

Articolo pubblicato sulla rivista "NEXUS" n. 111 - Autunno 2019

Stiamo esternalizzando la nostra memoria affidandola a smartphone e tablet, ma la memoria non è solo “la fortezza dell’intelligenza”, è anche quello che siamo, la nostra identità. Rievocare antichi ricordi ci aiuta a comprendere chi siamo.

Sto diventando miope. È una miopia connessa con la maturità, mi dicono. Per carità, 1/1,5 gradi di deficit che comunque, fino a pochi anni fa, non avevo e che mi costringe, per leggere bene, all’uso degli occhiali.

Mi aspetto di diventare anche, magari ancora fra qualche anno, presbite. Ma di una presbiopia non intesa come patologia visiva, bensì della memoria. Presbiopia della memoria, appunto, l’ha soprannominata qualcuno. Ossia non ricordare quello che hai fatto ieri, ma ricordare invece, con straordinaria lucidità, quello che è accaduto o hai fatto quando avevi magari cinque anni. Non credo che ciò accada tanto perché deve accadere ma, sono sempre più convinto, perché il Buon Dio ha voluto, per una serie di ragioni, tenerci e farci sentire “più vivi” o saggi, facendoci ritornare in mente situazioni o fatti che, pur nella loro semplicità, possono essere comunque attuali o di aiuto alla soluzione dei problemi dei nostri giorni. E questa cassaforte di pensieri, di nozioni, ma anche di ricordi, che è la nostra memoria, sembra farci tornare alla mente quanto di più lontano accaduto, come quell’impiegato comunale che, sommerso dalle pratiche, decide inspiegabilmente di dare risposte alle più vecchie o dimenticate, sommerse di polvere e che non interessano più a nessuno. Ed è il caso di dire che, tanto è più forte la presbiopia, tanto più chiari e nitidi sono i ricordi delle cose passate, trascorse, e che grazie ad essa tornano alla mente, convertendosi in fatti o racconti spesso originali e inediti per la gioia degli ascoltatori.

Non credo personalmente di essere già affetto da questa patologia, anche se, detto tra noi, non mi dispiacerebbe del tutto soffrirne un po’, soprattutto in determinate occasioni. Che cosa c’è di più bello infatti che ricordare, per esempio, i compagni di classe delle elementari, il maestro o la maestra che con pazienza hanno iniziato a forgiarci e a trasmetterci le più semplici nozioni dello scrivere, di storia, di geografia… La scuola, in genere, per il ruolo che ha avuto in tutte le sue evoluzioni, è forse quella che più facilmente ci ritorna in mente, senza fare alcuno sforzo, nessuna fatica. Riviviamo, come per incanto, tutte quelle situazioni che, direttamente o indirettamente, ci hanno visti protagonisti. Così, tanto più illogiche, imbarazzanti, strane e surreali sono state quelle situazioni, tanto più facilmente le ricordiamo con dovizia di particolari. Ironia della sorte, o meglio della memoria, sono proprio queste che, prima di ogni altra, fuoriescono dal nostro preziosissimo scrigno, quello della memoria, appunto, aprendo il suo coperchio mai chiuso a chiave, per farci sorridere e compiacerci un po’, nella certezza che comunque sono fatti e circostanze passate che, purtroppo o per fortuna per noi, non possono più accadere.

Che cosa meravigliosa è la memoria. È, senza ombra di dubbio, una fra le più importanti funzioni della nostra mente e di cui nessun essere vivente può fare a meno. Tanto più è viva e pronta, tanto più risulta essenziale nel nostro vivere quotidiano, nel nostro lavoro. Ricordo che, e sono certo che la memoria non mi inganna, fino a qualche anno fa, o meglio ai miei tempi, imparare una poesia a memoria o una formula matematica per esempio, si diceva essere l’esercizio migliore e naturale per sviluppare appunto e allenare la memoria.
Ricordate le tabelline numeriche per esempio? Tutte imparate a memoria per far di conto. Ancora, lo studio dei verbi, delle capitali di tutte le nazioni del mondo e via di seguito. Erano pratiche a cui tutto il corpo insegnante si rifaceva per lo svolgimento dei programmi scolastici. La memoria è come un muscolo, ci dicevano. Per svilupparlo va esercitato e tenuto costantemente in funzione. Programmi e metodi che ci hanno fatto crescere arricchendoci, chi più, chi meno, di tutte quelle nozioni che ci hanno consentito di arrivare dove siamo arrivati, di scegliere la nostra occupazione, il nostro lavoro, i nostri collaboratori e, perché no, anche di farci una famiglia. Oggi, nessuno più impara nulla a memoria. Una poesia, una tabellina, un teorema. Nessun insegnante più ricorre a tali metodi, ritenuti vetusti e superati. Forse perché anch’essi figli di un nuovo e più moderno “insegnamento”. Non memorizziamo più neanche il numero di telefono che, per noi, è conservato nella memoria del nostro cellulare o del nostro pc. Per quanto riguarda verbi e teoremi basta ricorrere a Internet e, in un battibaleno, possiamo sapere di tutto e di più. Una o più memorie artificiali quindi, sempre o quasi sempre a portata di mano, che ci affiancano e, in alcuni casi, sostituiscono la nostra. Quel nostro scrigno, quel forziere di nozioni che avevamo, è quindi sempre più vuoto, sempre più piccolo, insignificante. Una sorgente da cui l’acqua della memoria non sgorga più. E non può venirci in aiuto, in alcun modo, in tutte quelle situazioni, e sono tante, in cui siamo lontani, un pc, o non possiamo utilizzare il tablet o il cellulare. Facendoci risultare tutti un po’ più aridi, appassiti dall’assenza di quell’acqua miracolosa che a volte, grazie alla quale, ci sentiamo un po’ poeti, un po’ letterati, matematici, fisici, storici. Insomma un po’ più colti e preparati. Così, grazie alla nostra memoria, scrivere storie, riportare riflessioni, pensieri, non può essere considerato un lavoro, ma un fatto piacevole e distensivo. Almeno per me. Scrivo per diletto, forse per compiacermi. Nei momenti e nei posti più strani. Lo faccio sullo stimolo di riflessioni, di pensieri o fatti che mi accadono o mi sono accaduti. Scrivo secondo una tecnica tutta mia, antica forse ma che rispecchia certamente il mio modo di essere. Su un foglio e rigorosamente a mano, traccio pensieri e osservazioni che costituiranno l’ossatura di ogni mio ragionamento. Ragionamento, si fa per dire, o meglio e più precisamente di quello che, secondo me, è il risultato di un pensiero compiuto. Di un ragionamento, appunto. Dopo aver così scritto, sempre secondo questa mia tecnica ormai collaudata la prima prova vera è quella di leggere a voce alta. Orbene, dopo aver scritto almeno tre o quattro pagine, a voce alta leggo e rileggo, apportando quelle che secondo me, sono le giuste correzioni, di punteggiatura, ma anche di sintassi, affinando meglio, in molti casi, il contenuto di quanto prodotto. Ma la prova vera, la più difficile, la più terribile e che temo di più, è leggere ad alta voce a mia moglie quanto ho scritto e, dalle facce che fa, dalle smorfie del volto, capisco se può andare o no!

Sono comunque, e resto, una persona molto fortunata. Anche mia madre me lo diceva sempre. Tutto perché, secondo lei, un bel giorno, quando avevo tre o quattro anni, correndo in un giardino scivolai sulla cacca di un cane. Come se non bastasse, nello scivolare, finii la mia corsa su un’altra cacca ben più grossa e fresca, sporcandomi le mani e il viso. Forse erano le uniche due “tracce” di animali dell’intero giardino, tenuto per la verità benissimo, pulitissimo e ordinatissimo dai proprietari, famiglia abbiente e conosciuta, del quale, per la mia tenera età e forse per simpatia, mi lasciavano calpestare l’erba. Al mio pianto ininterrotto, con lacrime che sembravano sgorgare da un irrigatore, e un singhiozzo che toglieva il respiro, mia madre mi consolò dicendomi: “Tutta fortuna, figlio mio, tutta fortuna”, e lo ripeteva a voce alta cercando di coprire le mie urla di disappunto. Solo più tardi, molti anni dopo, capii il senso delle sue parole e il significato della fortuna associata all’escremento “calpestato”.

La mia vita, forse anche per questo, è stata davvero fortunata! Intensa, ricca di emozioni, non sempre piacevoli ma che hanno anch’esse concorso a forgiarmi, a temprarmi e a prepararmi per il mio lavoro. Un lavoro che ho scelto io e di cui sono altamente orgoglioso.

Ho vissuto facendo quello che più mi piace, ossia ho lavorato e lavoro sodo, senza quasi accorgermene, senza interruzioni né rimorsi o rimpianti.

Quello che non ha potuto fare mio padre che, per la famiglia, si è sacrificato e spezzato la schiena tutta la vita, con quel lavoro duro e pesantissimo che è quello del ferraiolo. Lo faceva per noi, per me. E spero che da lassù oggi possa almeno gioire ed essere orgoglioso dei propri figli, di me e dei miei fratelli. Ricordo un giorno in cui mi disse che, nonostante la crescita della nostra attività, nonostante tutto il nostro impegno e abnegazione, per la nostra umile provenienza ed estrazione sociale saremmo stati comunque considerati dei “bastardi” ma che ciò poteva non costituire un grosso handicap per il nostro futuro.
Ho pensato molte volte al significato di quelle parole e a ciò che effettivamente lui volesse intendere. Ho riflettuto molto e sono arrivato alla convinzione che quei cani di gran razza, di pura razza, con un pedigree favoloso, bellissimi e ricercatissimi, sono, nella maggioranza dei casi, non intelligentissimi e non sempre fedeli. Quanto sono intelligenti invece, quei cani “bastardi” o “bastardini”, a seconda della taglia, è cosa risaputa. Mi dichiaro così di essere un “bastardo”, in analogia al pensiero di mio padre, non sono certamente bellissimo ma, consentitemelo, non mi considero certo uno stupido…

Guardiamo avanti. Il bello non è solo quello che abbiamo vissuto, ma tutto quello che abbiamo ancora da vivere. Ha detto qualcuno di cui, ahimè, scherzi della memoria, non ricordo il nome. La storia potrebbe continuare, ma forse è meglio mettere qui… la parola Fine.

Foto: Dorota Kudyba da Pixabay