L’oro di Teo
Articolo pubblicato sulla rivista "NEXUS" n. 107 - Autunno 2018
Una divertita disquisizione sul nome Teodoro, dedicata a tutti i Teodori del mondo: d’altronde tra i Romani si diceva “nomen omen”, nel nome c’è il destino di una persona…
Quando a mia madre, quell’anziano sacerdote gesuita spiegò che Teodoro in greco significa “Dono di Dio”, guardandomi profondamente e annuendo con il capo asserì, con viso serio e compiaciuto, che effettivamente ero stato un dono del Signore.
Avevo già cinque fratelli e ancora oggi, a distanza di così tanti anni, non capisco che cosa mia madre volesse intendere con la sua affermazione. Sta di fatto che il nome che porto, oltre a non essere proprio comune, è spesso oggetto di serie o scherzose affermazioni ed è anche per questo che ne vado fiero e non lo cambierei per tutto l’oro del mondo.
Intendiamoci, con il nome “L’Oro del Mondo” non lo cambierei, ma se mi offrissero non tutto, ma anche la centesima parte di tutto l’oro del mondo lo cambierei eccome! Ecco, l’oro, che per assonanza sembra costituire una parte importante del mio nome, assume decisamente un ruolo di prim’ordine nella mia vita e in questa storia. Negli anni poi, tutti hanno cercato di privarmi del nome che porto, di questo elemento così prezioso, che è stato oggetto da sempre di numerose e infinite dispute se non addirittura di veri e propri conflitti. Ed è così che, per moltissimi, sono diventato Teo.
Ora, dico io, pur riconoscendo tutta l’importanza del Theos greco, essere derubato ancorché non menzionato del Doron dagli altri e solo per pigrizia di linguaggio non mi fa certamente piacere.
Scusate, doron è mio e lo voglio tutto, non intendo privarmene o addirittura regalarlo a chicchessia. Me lo sono guadagnato già dal primo giorno che sono venuto al mondo, quando mio padre forse, dopo cinque figli, aveva esaurito il suo repertorio e decise di caricarmi d’oro. Non credo infatti che, in quel momento, un’altra bocca da sfamare potesse essere per lui un dono di Dio, considerata la modestissima per non dire difficile situazione in cui versava allora la mia famiglia. Avrebbe potuto chiamarmi in mille altri modi e invece no, ha voluto che il d’oro fosse parte essenziale del mio nome e, siatene certi, né mio padre né tantomeno mia madre conoscevano il greco perché, se l’avessero conosciuto, probabilmente oggi avrei un altro nome.
Ma perché poi dover abbreviare a tutti i costi perfino il nome? Non basta che quando inviamo mail o ci messaggiamo, scriviamo spesso, proprio per abbreviare, in modo impersonale e di non facile comprensione? Certo, se uno si chiama Francesco Giuseppe qualche giustificazione ci sarebbe ma, nel mio caso, consentitemi di dire, non è proprio così.
Per non parlare poi dei romani moderni, non gli antichi, quelli che avevano conquistato e civilizzato il mondo conosciuto. I romani di oggi, quelli che per puntualità e voglia di lavorare non ne vogliono proprio sapere e che fanno sorridere, pur conquistando anch’essi paradossalmente il mondo intero. Hanno, anzi abbiamo, considerate le mie origini romane, un modo di parlare così abbreviativo che di più non si può. Sembra quasi, alla stregua del lavoro, che facciano fatica anche ad aggiungere una vocale finale, cosicché il già tanto ridotto Teo diventa, per esempio nel saluto, “ciao Tè…” – “come stai Tè…” – “quando vieni Tè…” e così di seguito.
Accantonando in tutta la sua singolarità il linguaggio del romano moderno, il problema rimane e forse si amplifica in tutto il resto del paese. Mi domando e domando, ma quando andiamo dal fruttivendolo o al supermercato a comprare del pomodoro, come la mettiamo?
Gli chiediamo: “mi da un pom?” Il nostro interlocutore capirebbe e ci prenderebbe per normali? Ho i miei dubbi. A Natale andiamo a comperare il pandoro. Se chiedessimo al nostro interlocutore “il pan” e insistessimo, torneremmo a casa con un quintale di pane. Chi non ricorda la poesia “La spigolatrice di Sapri” ispirata alla spedizione dei trecento di Carlo Pisacane che recitava: “Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro…” provate a togliere il d’oro e leggete cosa resta. Una strofa senza senso e senza significato appunto.
A Venezia in Cannaregio c’è un rinomato e fortunato ristorante che si chiama “Boccadoro”. Provate a chiedere al proprietario di togliere il d’oro e di chiamarlo “Bocca”. Vediamo cosa risponde!
Di qui la mia convinzione che d’oro ce l’ho e me lo tengo tutto per me e guai a chi me lo tocca! E poi, è così tanto tempo che lo tengo e lo porto che mi ci sono pure affezionato e devo dire che, insieme, abbiamo fatto tante cose. Ci siamo divertiti ma abbiamo fatto anche il nostro dovere. Ci siamo impegnati e ce l’abbiamo messa tutta per fare del nostro meglio.
Se è poi vero che non è tutt’oro quello che luccica, allora certamente i più capiranno perché non ho mai perso la modestia, qualità diventata alquanto rara oggi e di cui molti hanno perso il significato. Purtroppo il mondo sembra si stia muovendo alla velocità della luce. Quello che ieri era il futuro oggi è già passato ma, l’oro, o meglio l’essere d’oro, quello non ha mai perso il suo valore, vero o riconosciuto, oggettivo o soggettivo. Non è un semplice metallo. Non c’è Borsa Valori che può far salire o scendere la sua quotazione. Ma essere d’oro è, in talune circostanze, un fardello così gravoso e pesante di cui però non ho mai pensato di volermi liberare. Tutti, per il nome che porto, vogliono e pretendono il massimo in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni cosa che penso o mi accingo a fare.
Essere d’oro crea anche molte aspettative, con chi mi confronto o collaboro, e che, mio malgrado e nonostante la mia buona volontà, non sempre riesco a soddisfare. Diciamocela tutta però, se mi fossi chiamato Teoargento e Teobronzo, forse sarei stato meno rigido e più permissivo, ma con il mio, in realtà immaginato, d’oro sono intransigente. È parte di me, non può essere cancellato, dimenticato, annullato. Dà proprio quel senso di… aureo al nome e soprattutto a chi lo porta! Qualcuno potrà obiettare che anche l’oro ha i suoi sbalzi di valore ma chi mi conosce sa che io ero, sono e sarò sempre lo stesso.
Certo, “il tempo segna anche il ferro” dicevano gli anziani di una volta, ma non l’oro. Ebbene, appunto, pur pregando Iddio che mi dia una salute di ferro, insisto e difendo le mie origini dorate. Con l’oro poi, da sempre, l’umanità tutta ha costruito monili e piccoli oggetti preziosi. Io forse, per le mie dimensioni sarò un monile un po’ ingombrante ma, quello che più importa è che io sia d’oro. Quando passo ogni tanto davanti a un’oreficeria, non ci entro mai perché non ne ho bisogno, e penso a quale triste lavoro possa essere quello di vendere l’oro. Come se la felicità la si potesse acquistare acquistando un oggetto d’oro, sia esso un anello, una collana, un bracciale o un orologio.
E no, cari amici, d’oro si nasce e, come disse il grande Antonio de Curtis in arte Totò, io, lo nacqui!
E per finire, a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggermi sin qui, chiedo di comprendere che, chiamandomi solo Teo, potrebbero farmi scambiare anche per un Teofilo qualunque o per un Teodosio di altri tempi o addirittura per un volgare e barbaro Teodorico.
Comunque, con ampia deroga, tutti quelli che mi conoscono e ancorché mi sono amici, possono tranquillamente e serenamente continuare a chiamarmi come hanno sempre fatto, nella certezza che anche loro condivideranno che io sia un dono di Dio, ovvero Teo di nome e d’oro di fatto. Senza falsa modestia.
Foto: Sarah Lötscher da Pixabay